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L’INQUINAMENTO ATMOSFERICO COME VETTORE DI COVID-19

Vi abbiamo parlato delle indagini che alcuni ricercatori stanno portando avanti circa le correlazioni tra la diffusione del contagio da COVID-19 e l’andamento meteo-climatico.

Parallelamente, nelle ultime settimane, un gruppo di studiosi della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) ha soffermato la propria lente sul possibile rapporto di interdipendenza tra la diffusione del virus e i valori di Pm10, una delle numerose frazioni in cui viene classificato il cosiddetto “particolato”, ovverosia l’insieme delle sostanze sospese in aria sotto forma di aerosol atmosferico che hanno dimensioni che variano da pochi nm a 100 µm. I risultati paiono alquanto interessanti.

Ma andiamo con ordine. Leonardo Setti dell’Università di Bologna e Gianluigi de Gennaro dell’Università di Bari, prendendo in analisi il periodo tra il 10 e il 29 febbraio 2020, hanno incrociato i dati relativi all’inquinamento atmosferico registrati dalle centraline delle Arpa, le agenzie regionali per la protezione ambientale e quelli afferenti al contagio da COVID-19 riportati dalla Protezione Civile, aggiornati al 3 marzo, lasso temporale necessario considerando i tempi di incubazione del virus.

La conclusione a cui i due studiosi sono giunti è che esiste una forte correlazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di particolato e il numero di casi infetti da COVID-19.

In particolare è stato osservato che in Pianura Padana le anomale accelerazioni nelle curve di espansione dell’infezione coincidevano, a distanza di 14 giorni, con le più elevate concentrazioni di Pm10.

Leonardo Setti chiarisce che le alte concentrazioni di polveri avrebbero prodotto una vera e propria accelerazione alla diffusione del virus, effetto particolarmente evidente nelle aree in cui si sono accesi i primi focolai.

Questo spiegherebbe, almeno in parte (lo studio non ha di certo la pretesa di dare una risposta esaustiva al problema) il perchè, dopo la Cina (il Paese più inquinato del pianeta), la val Padana oggi sia la zona col più alto numero di persone contagiate; perchè città come Brescia o Bergamo, tra le più inquinate d’Italia, risultino così colpite, rispetto per esempio a Roma dove, a dispetto dei suoi quasi tre milioni di abitanti, la concentrazione di Pm10 è di molto inferiore.

Ma a ben vedere, quella per cui l’inquinamento da Pm10 sia una sorta di “lasciapassare” delle infezioni non è assolutamente un’idea nuova. È già stato dimostrato che le malattie (si vedano polmonite e morbillo) si diffondono più facilmente laddove l’inquinamento da Pm10 è più accentuato. Va da sè, peraltro, che gli abitanti di tali zone, a causa della cattiva qualità dell’aria, presentino un apparato respiratore e un sistema immunitario in media più facilmente intaccabile.

Per COVID-19 varrebbe il medesimo concetto: il particolato funge da vettore per il trasporto del virus che, al pari di numerosi contaminanti chimici e biologici, vi si “attacca” (attraverso un processo noto come “coagulazione”) per ore, per giorni o addirittura settimane.

A ribadirlo è Gianluigi de Gennaro dell’Università di Bari che afferma che maggiore è la presenza di polveri sottili maggiori sono le “autostrade” per i contagi. Di qui la necessità di ridurre al minimo le emissioni.