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COVID-19: POSSIBILI CORRELAZIONI METEO-CLIMATICHE

Ci si domanda se la diffusione di COVID-19 possa essere in qualche modo correlata all’andamento del tempo atmosferico e alle caratteristiche climatiche e se, similmente a quanto osservabile con i classici virus influenzali, in futuro mostrerà le tipiche fluttuazioni stagionali.

Consci del fatto che ad ora qualunque conclusione sarebbe prematura (nemmeno il Ministero della Salute si è sbilanciata in merito), alcuni studiosi, osservando la situazione dei contagi documentati nel mondo, al netto delle probabili disomogeneità nei metodi di rilevazione, hanno notato come le regioni al momento più colpite – Cina, Corea del Sud, Iran, Italia, Francia, Stati Uniti nord-occidentali – si concentrino lungo una fascia latitudinale compresa tra 30° e 50° Nord, ovverosia in zone in cui nelle scorse settimane le condizioni termo-igrometriche si sono mostrate abbastanza simili (temperatura media tra +5 e +11°C e umidità relativa media tra 47 e 79%).

È quanto viene suggerito dallo studio Temperature and latitude analysis to predict potential spread and seasonality for COVID-19, sottoposto a revisione sul Social Science Research Network, di un gruppo di ricercatori coordinato da Mohammad M. Sajadi (Institute of Human Virology, University of Maryland School of Medicine, Baltimora). Si tratta di un primo tentativo di correlazione tra clima e contagi, volto ad aprire la strada ad una eventuale previsione della diffusione dell’epidemia nelle prossime settimane e mesi, anche su base geografica e climatica.

Sulla scorta di tale importante contributo scientifico, hanno mosso le proprie indagini l’autorevole climatologo Luca Mercalli e il ricercatore Daniele Cat Berro, della celebre rivista Nimbus, i quali hanno provato a rappresentare in un grafico le temperature medie giornaliere di alcune località rappresentative delle zone più (o meno) colpite dal contagio da COVID-19.

Nell’intervallo di tempo tra il 20 gennaio e il 20 febbraio 2020, durante il quale l’epidemia si è diffusa nella provincia cinese di Hubei, a Wuhan la temperatura media si è attestata a +6,8 °C; tra il 10 febbraio e il 9 marzo 2020, periodo in cui il contagio si è diffuso al di fuori della Cina, sono state registrate medie termiche di +5.3°C a Seoul (Corea del Sud), +7.9°C a Teheran (Iran), +7.8 °C a Piacenza (Italia), +8.6 °C a Parigi (Francia), +6.0 °C a Seattle (Nord Usa). Si tratta di città localizzate in regioni geografiche caratterizzate da importanti manifestazioni dell’infezione da COVID-19.
In nessuna di queste le temperature medie giornaliere sono mai scese sotto la soglia di 0°C, fatta eccezione solo per Seoul per alcuni giorni in febbraio. Questo potrebbe suggerire che condizioni di gelo prolungato la propagazione del virus troverebbe maggiori difficoltà.

E in effetti è possibile notare come dalle grandi città boreali più fredde, potenzialmente favorevoli alla diffusione del contagio a causa dall’alta densità abitativa e dell’intensa rete di scambi internazionali e caratterizzate altresì da sistemi sanitari tali da poter censire con una certa efficacia la popolazione infetta, non vi siano notizie, almeno per ora, di situazioni di particolare criticità. Si pensi per esempio a Mosca (Russia), che per quanto reduce da un inverno straordinariamente mite (media 10 febbraio – 9 marzo pari a +2.3°C) registra solo 3 casi di infezione, provenienti peraltro dall’Italia; oppure a Toronto, in Canada (media -1,4 °C) dove i casi di positività si attestano a 36 in tutta la provincia dell’Ontario, che conta circa 13.5 milioni di abitanti.

Tuttavia la situazione è in continua evoluzione, e in via di peggioramento anche in diversi paesi nordici, dove solo ora la malattia sta cominciando a diffondersi.

Ma a ben vedere anche il caldo potrebbe ostacolare la diffusione del virus, la cui presenza, a oggi, risulta piuttosto frammentata ed esigua non solo nelle regioni tropicali ed equatoriali, ma anche nell’insieme dell’emisfero australe, dove la stagione estiva è in dirittura di arrivo.
Uno studio sulla pandemia di SARS del 2003 (Chan et al., 2010) ha d’altronde dimostrato che i coronavirus tendono ad inattivarsi in presenza di valori di temperatura e tassi di umidità elevati.

La città-Stato di Singapore (Malesia), quarto principale centro finanziario del mondo, con un soffocante clima caldo e umido (temperatura media di +29°C nell’ultimo mese), conta attualmente un numero di positivi al SARS-CoV-2 piuttosto contenuto (166), in relazione al numero di abitanti (circa 5.5 milioni).
Allo stesso modo in India, dove i casi accertati sono 60, un numero che tuttavia soffre ragionevolmente di sottostima a causa delle precarie condizioni sanitarie del Paese.

I ricercatori coordinati da Mohammad M. Sajadi suggeriscono che con l’avanzare della primavera boreale e il fisiologico aumento delle temperature, le condizioni meteo-climatiche adatte ad una maggiore propagazione del virus potrebbero risalire verso latitudini più elevate (zone centrali di Europa e Asia, Stati Uniti nord-orientali). Contestualmente sarà interessante osservare l’evoluzione dei casi di infezione nell’emisfero australe all’arrivo della stagione invernale.

Molte sono le domande aperte: COVID-19 sparirà dal nostro emisfero in estate come osservabile con i ceppi virali della comune influenza? Si ripresenterà nell’inverno 2020-21, dando tuttavia il tempo, si spera, alla comunità bio-medica di individuare un vaccino o una cura? Quali saranno eventuali zone-rifugio per il virus? Scomparirà definitivamente o dovremo imparare a conviverci?

Si tratta di interrogativi a cui ancora la comunità scientifica non è in grado di dare delle risposte certe. I tentativi di previsione dell’andamento del contagio da COVID-19 sono ai primi passi e coinvolgono l’impiego di modelli matematici che nei prossimi mesi verranno testati e “tarati” sulla base dei dati raccolti.

Crediti: Nimbus – Rivista Italiana di Meteorologia, Clima e Ghiacciai